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PESCARA, PE - Pescara, Italy


Affascinato d'immersioni che ho sempre praticato in apnea, dal 1981 con autorespiratori (A.R.A. / A.R.O. / E.C.C.R.) e fin da ragazzo frequentatore della montagna, costantemente armeggio con, pinne, maschere, autorespiratori, corde, ramponi, piccozze e sci.
Tuffi ed ascensioni qui li racconto con "filmetti", parole e foto.

sabato 31 ottobre 1987

^^montagna: "LA FREDDA LUNGA NOTTE"

Questo è un breve racconto nel quale ricordo un'avventura montana vissuta assieme ad un amico alla fine di ottobre del 1987.

Partendo dalla Madonnina situata presso il Blockhaus, assieme a Massimo avevamo deciso di andare a vedere l'ampio anfiteatro roccioso che fa da cornice alla vetta delle Murelle, nel gruppo della Majella.
Con buon passo arrivammo fino al fontanino posto sotto il monte Focalone, quindi alla piccola costruzione in lamiera del bivacco Fusco per poi scendere nel vallone morenico situato tra il bivacco stesso e la cima delle Murelle. Da quel punto si possono osservare dal basso le imponenti quinte rocciose che quasi per tre quarti abbondanti d'angolo giro chiudono il cerchio dell'orizzonte.
Come sempre fino a quel momento le ore erano trascorse, anzi volate l'una dietro l'altra condite oltre che dalla voglia d'esplorazione, fatica e sudore, anche dalle tante risate, dalla goliardia e dalla spensieratezza, elementi altrettanto essenziali al nostro spirito.
Consumato il pranzo al sacco avevamo quindi deciso di effettuare il rientro non per l'itinerario percorso all'andata, cioè ripassando per il bivacco, ma uscire dall'anfiteatro aggirando verso sud lo sperone roccioso sottostante il Fusco, percorrendo un sentiero panoramico che in alcuni tratti un po' più esposti, ma non difficili, erano anche protetti da alcune corde fisse in metallo e catene.
Superati questi passi, non ci rimaneva altro che transitare brevemente in lieve ascesa su una traccia appena accennata tra i pini mughi che ci avrebbe ricondotto sul sentiero principale ben battuto e segnalato.
E così continuammo a camminare e chiacchierare tra la nebbia che intanto era calata anche molto fitta, tant'è che allontanandoci tra di noi per più di una decina di metri in certi momenti non ci vedevamo più.
Ad un tratto, dando uno sguardo all'orologio, pensai che era passato troppo tempo e che già da un po' avevamo dovuto raggiungere il sentiero. Qualcosa non quadrava.
Continuammo ancora nel grigio umido che nel frattempo si era ulteriormente addensato e con la luce del tardo pomeriggio, erano le 16 e 30, che iniziava a scemare visto che si era alla fine del mese di ottobre.
Nulla. Eravamo finiti fuori pista. La nebbia mi aveva ingannato facendomi smarrire la via.
Senza punti di riferimento visibili, senza carta, bussola ed altimetro ed immersi dentro un freddo vapore talmente spesso da tagliarsi praticamente a fette, era difficile capire dove ci stavamo dirigendo.
Quella manciata di minuti di luce che restavano a disposizione trascorsero davvero troppo velocemente, fece buio quasi all'improvviso.
Iniziammo ad essere sull'allerta: lo stato di fatto era che ci eravamo persi senza capire quale fossa la giusta direzione da seguire per ritrovare la via.
Massimo si preoccupava dei genitori a casa ai quali non aveva lasciato detto la meta della nostra escursione. Visto che i miei erano tutti fuori e quindi per quella sera non avevo nessuno che si sarebbe preoccupato di un mio eventuale mancato rientro, in verità lo ero più per la situazione contingente nella quale ci trovavamo.
Massimo con l'assillo del padre nella testa m'incitò senza posa a farmi strada al buio pesto dentro la sterpaglia fitta e contorta del pino mugo, convinto che così facendo avremmo ritrovato la pista conosciuta. All'epoca nel bagaglio della nostra scarnissima dotazione di montagna, le torce per illuminare non erano neanche prese in considerazione.
Dato che l'amico, tra l'altro, mi aveva contagiato parte della sua agitazione mi stavo muovendo senza nessun senso logico. Però quando mi resi conto di essere arrivato sul ciglio di un piccolo risalto roccioso alto un paio di metri al massimo che arrestò la nostra già improbabile avanzata, riflettei che un simile ostacolo incontrato alla luce del giorno lo si sarebbe tranquillamente aggirato, però di notte poteva diventare addirittura pericolosissimo se qualcuno di noi due in quel nostro procedere a tentoni fosse caduto da quell'altezza seppur non vertiginosa. Un banale infortunio, come ad esempio una semplice distorsione ad una caviglia, in un terreno del genere può diventare un serio problema. Per noi non era assolutamente il caso di azzardare.
Allora con questo pensiero, nonostante le proteste dell'altro, fui inamovibile nella decisione, stop ci si fermava lì a trascorrere la notte, punto e basta.
Massimo all'inizio non fu d'accordo, protestò e discutemmo animatamente poi, vista la mia risolutezza ed ascoltando le mie motivazioni capì. Si rese conto ed alla fine convenne anche lui che quella fosse la miglior cosa da fare. A quel punto dovevamo agire per noi, risolvere il nostro reale problema e dimenticare i pensieri degli altri che erano lontani fisicamente e mentalmente da quella situazione nella quale ci trovavamo: meglio un parente preoccupato a casa che uno di noi due con qualcosa di rotto persi in montagna. Stavamo scegliendo il male minore.
Così ci accingemmo a prepararci per quell'inatteso e forzato bivacco mai nemmeno lontanamente progettato e tanto meno immaginato nelle nostre se pur fervide fantasie.
Il nostro equipaggiamento, davvero poca cosa, era costituito da qualche strato di cotone. Infatti tutti e due indossavamo jeans, t-shirt, felpe e protetti, se così è permesso di dire, da mantelline impermeabile tipo K-Way. Da mangiare oramai praticamente nulla perchè avevamo esaurito tutto.
Fin quando ci eravamo mossi non ci eravamo accorti della temperatura della tarda sera di fine ottobre, ma non appena ci stabilizzammo in quello che sarebbe stata la sede della nostra notte all'addiaccio a 2000 metri di quota, i brividi iniziarono a farci tremare.
Massimo da appassionato di calcio ed accanito tifoso del Pescara quel giorno aveva con se il "Corriere dello Sport" che quotidianamente non mancava mai di comprare per essere aggiornato sulle gesta dei suoi beniamini biancoazzurri, i cui fogli opportunamente adoperammo senza l'intenzione di essere informati sui "pallonari", ma per avvolgerci busto e gambe.
Così conciati ci addossammo seduti spalle ad una roccia, stretti l'uno vicino all'altro e sopra la testa come tetto la tesa aperta dell'ombrello pieghevole che l'amico aveva nello zaino, pronti ad iniziare quella che poi avremmo in seguito per sempre ricoradato come "LA FREDDA LUNGA NOTTE. Erano all'incirca le 18 e 30.
Se all'inizio il freddo era a mala pena sopportabile protetti solamente da un po' di cotone e fogli di giornale, con il lentissimo scorrere delle ore divenne una tortura continua nei confronti della quale eravamo totalmente impotenti.
A momenti anche qualche sbuffo ventoso ci si insinuava dentro, giusto per farci perdere ulteriori calorie.
Il tempo sembrava essersi congelato assieme a noi. Almeno fossimo riusciti a dormire qualche minuto lo avremmo ingannato. Macchè. Certe volte chiacchieravamo un po' per cercare di sortire lo stesso effetto ma ... nulla da fare. Nonostante pensassimo che fosse trascorso chissà quanto le lancette dell'orologio incollate quasi sempre nello stesso punto impietosamente ci riconducevano dal mondo del tempo virtuale della mente, a quello reale scandito dai "secondi" che erano piccole, ma per noi eterne, frazioni di minuti ed ore.
Più del freddo concreto che ci stava attanagliando Massimo continuava a figurarsi il pandemonio che oramai era scoppiato a casa sua provando ad immaginare cosa stesse facendo il padre. Quello comunque era e rimaneva il suo assillo principale mentre io, invece, mi domandavo cosa avremmo fatto nel caso in cui non appena fosse passata la notte il nebbione fitto non si fosse sollevato. Quale direzione avremo preso?
Accovacciati, sotto l'ombrello, dentro quello spiacevole umido, l'unica vaga idea di luce era lo sfumato ed appena percettibile chiarore delle sfere fosforescenti del mio "Citizen" al polso. Il resto, ovunque, era gelida tenebra.
Ad un certo punto, non ricordò l'ora, a causa del freddo intenso avevo la vescica che mi stava scoppiando. Il sol pensiero però di alzarmi in piedi dal mio "bozzolo" per evaquare e così offrirmi maggiormente alla perdita di calore mi fece desistere e rimandare l'operazione.
All'incirca alle tre della notte la nebbia si diradò. Meno male, pensai tirando un sospiro di sollievo. Allora davanti ai nostri occhi si aprì un panorama montano notturno che all'inizio non riconobbi. Cioè mi spiego. Dopo esserci persi, i miei sensi disorientati avevano costruito un'immagine distorta del punto nel quale credevo fossimo totalmente differente dalla realtà della cose che grazie a quella schiarita potevo guardare. Le luci delle antenne della Majelletta, a me ben note, le vedevo spostate di tanto rispetto a dove mi sarei aspettato fossero.
Con attenzione memorizzai la cosa ed individuai quale doveva essere la direzione da percorrere di gran carriera non appena ci fosse stato chiarore a sufficienza per scappar via di là, anche nel caso in cui la nebbia fosse tornata ad ammantare tutto. Da quel momento sicuramente per me ci fu un peso mentale in meno e, fino quando non iniziò il crepuscolo dell'alba, fortunatamente fu sempre sereno. Sotto il cielo stellato però la temperatura subì un ulteriore calo: le nuvole basse avevano creato un microclima tipo effetto serra che in pochi minuti la "serenata" fece svanire. Quelle ultime ed interminabili ore del nostro bivacco forzato furono le più fredde in assoluto.
L'aria era tersa e cristallina e le stelle parevano pulsare. Sentivamo abbaiare in una lontananza non ben definita dei cani e la cosa ci preoccupò perchè tempo addietro un pastore della zona ci aveva detto che sulla Majella giravano dei branchi di cani rinselvatichiti. Ci sarebbe mancato solamente il fatto magari d'incontrarne qualcuno.
Lentamente, troppo lentamente, una sfumatura della notte appena meno scura ci avvisò che stava per iniziare il crepuscolo mattutino. In un arcobaleno in lentissima dissolvenza cromatica, della quale però in quelle condizioni di vero patimento di freddo non riuscimmo ad apprezzarne la mistica estetica, la luce si fece strada sulla notte.
Rintronati dal freddo fin dentro le ossa, eravamo davvero impazienti di muoverci, ma i contorni attorno a noi non erano ancora ben delineati e quindi purtroppo dovemmo aspettare ancora.
Finalmente quando la boscaglia di pino mugo passò dall'essere da una vaga ed indistinta ombra ad un qualcosa alla nostra vista di meglio disegnato di color verde, giunse l'ora di metterci in piedi. Eravamo stati accovacciati, praticamente immobili al gelo della notte dei duemila metri di quota di un fine ottobre che ci aveva rattrappiti, per quasi dodici ininterrotte ore.
La prima cosa che feci fu la pipì: fu una liberazione! Non finiva più di uscire e quando ebbi terminato mi sentii rinascere.
Poi immediatamente dopo ci incitammo: via, dovevamo andare via decisi nella giusta direzione che grazie alla nebbia dissolta potevamo vedere con chiarezza.
Questa andava su, dritta per la massima pendenza ad attraversare senza indugi l'inestricabile boscaglia di pini mughi dentro la quale per passare di gran carriera spezzammo rami, ci graffiammo, ci sporcammo di terra e strappammo i K-Way. Ricordo che il mio era di color giallo. Questa marcia forzata durò quasi un'ora a testimonianza del fatto che la sera prima la nebbia ci aveva talmente disorientati che, nel nostro camminare inconsapevole, avevamo perso davvero parecchia quota sulla costa della montagna.
La marcia dentro/attraverso il pino mugo però ebbe anche l'effetto di riscaldarci, e dopo tutto quel patimento prolungato era piacevole sentire il corpo che non tremava più. Quando uscimmo dalla boscaglia vicini al sentiero conosciuto avevamo perfino sudato.
La "FREDDA LUNGA NOTTE" era terminata.
Di corsa ripercorremmo la traccia che ci riportava all'automobile mentre la nebbia tornava nuovamente a chiudere gli orizzonti. Per un pelo.
L'ultima scena che nitidamente rivedo e ricordo è quella di noi due che entrammo di mattina presto nella deserta sala del bar dell'hotel "MAMMAROSA" alla Majelletta. L'addetto dietro il banco si stupì di vederci irrompere di gran carriera, imbrattati di terra, spettinati e graffiati. Non fece domande, e dentro di noi gli fummo grati di ciò. Gli chiedemmo dei gettoni telefonici che servirono finalmente a Massimo per poter comunicare "via cavo" con il padre che, non avendo avuto più sue notizie per tutta la notte e credendolo oramai disperso per sempre, al sentire la voce del redivivo figlio prima benedisse svariate santità nei confronti delle quali nutriva una particolare e fervente devozione, e poi via giù con una ramanzina con i fiocchi nella quale ero stato tirato dentro anch'io quale istigatore, mèntore e guida del suo primogenito in attività poco canoniche, minnacciando Massimo di non sò quali rappresaglie se mi avesse ancora seguito nei miei progetti!
Riagganciata la cornetta al solito per noi furono grasse risate! Il buon umore era tornato. Io però, a dirla tutta, per parecchio tempo ed a titolo precauzionale, ebbi ben cura di evitare le mura della casa dell'amico.
Ci facemmo servire quindi un paio di cappuccini bollenti a testa che scomparvero nelle nostre gole come in un gorgo andando ad iniziare a stiepidire i nostri visceri affamati. Non ricordo poi quanti cornetti alla marmellata famelicamente divorammo nello spazio temporale di un minuto al massimo.
Quella "FREDDA LUNGA NOTTE" ha segnato indelebilmente i miei pensieri in una tripla veste. Da una parte quella del chiaro ricordo nonostante gli anni passati di un'avventura intensamente vissuta, da un'altra quella degli imprescindibili e severi consigli "imposti" dalla Montagna a chi, attratto dal suo irresistibile magnete si accinga ad assaporarne la bellezza, il mistero ed il fascino, e non per ultimo di quel freddo patito.

Giacinto.zeta zeta. Marchionni (Brano tratto da miei scritti editi)